Sancia Gaetani, riflessioni su “Il mais miracoloso” di Emanuele Bernardi

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Riflessioni sul libro “Il mais “miracoloso” – Storia di un’innovazione tra politica, economia e religione” di Emanuele Bernardi

di Sancia Gaetani

Il contenuto del libro è molto interessante e tutto quello che l’autore racconta è ben documentato, ben scritto e non noioso anche per persone che non sono esperte dell’argomento. Attraverso la storia della diffusione degli ibridi di mais americani dopo la II guerrra mondiale, emerge chiaramente non solo la storia dell’agricoltura italiana, ma la storia dell’Italia dal dopoguerra a oggi con tutte le sue specificità rispetto agli altri paesi europei e le sue contraddizioni date anche dalla presenza del Vaticano e dalla forte e invadente personalità di papa Pio XII.
Nella premessa l’autore inquadra bene quanto poi raccontato nel libro, e, riportando uno scritto di Manlio Rossi–Doria, da un articolo di Nord e Sud del 1960: Considerazioni sull’agricoltura europea, spiega come, con la fine della seconda guerra mondiale, prima tramite i governi militari e l’UNRRA e poi con il piano Marshall, gli USA proiettarono sull’Europa in crisi i frutti della rivoluzione tecnologica, economica e organizzativa avviatasi là negli anni ’30 dopo la grande depressione. I paesi europei si trovarono a disporre di un patrimonio ingente di conoscenze e di esperienze, di ritrovati tecnici, di formule organizzative, ma non ebbero la forza di vincere l’inerzia della tradizione e della loro congenita disgregazione.

Io credo però che la cosa che mancava principalmente all’Italia, più della forza per vincere l’inerzia della tradizione, era la cultura scientifica che l’aiutasse a utilizzare le nuove tecnologie ma in maniera critica, valutando le differenze idrogeografiche, sociali, culturali e alimentari che la diversificavano fortemente dagli USA e anche dagli altri paesi europei. Questa incapacità è evidente soprattutto nelle campagne fra i piccoli agricoltori e le loro associazioni, e principalmente nel sud. Di conseguenza anche i politici, rappresentanti dei cittadini che avrebbero dovuto dialogare, e anzi discutere con gli americani, non erano in grado di farlo opponendo alle proposte di aiuti e alla modalità con cui venivano dati, argomentazioni serie e convincenti. Inoltre la guerra civile aveva dilaniato il paese e si contrapponevano chi vedeva negli americani i liberatori (che volevano solo aiutare) con la sinistra che guardava all’URSS, giustamente sospettosa di quello che gli americani regalavano con lo scopo di penetrare il mercato europeo in generale e italiano in particolare con i loro prodotti. Le posizioni erano più o meno convincenti, ma sicuramente non scientifiche o tecniche.

In realtà le cose erano abbastanza complesse e contraddittorie perché da parte degli USA c’era sicuramente la volontà di aiutare, ma certamente non solo. Il tutto era inoltre complicato dal fatto che la DC e il Vaticano erano preoccupati dal dilagare del comunismo, contro il quale vedevano solo l’alleanza con gli USA.
Una delle colture utilizzata dagli USA su grandi estensioni di terra era il mais ibrido diffuso là grazie alle politiche del New Deal dell’amministrazione Roosvelt. Negli anni ‘40 infatti il mais ibrido occupava il 90% delle coltivazioni di mais dell’Iowa e i 2/3 di quella degli stati occidentali. Questo mais ibrido era ottenuto dall’incrocio di 2 o più tipi di granturco autofecondato che raggiungeva una uniformità culturale che era funzionale alla meccanizzazione e alla razionalizzazione delle diverse fasi del raccolto. Queste piante erano più resistenti alle intemperie e avevano pannocchie più grandi. Tuttavia, per poter avere una buona resa, il seme si poteva usare una sola volta e quindi i contadini dovevano ricomprarlo ogni anno e utilizzandolo diventavano totalmente dipendenti dalle multinazionali dei semi.

Truman nel suo discorso del 1949 disse che gli USA erano pronti a fornire all’Europa assistenza tecnica per questa innovazione che avrebbe avuto conseguenze molte e inaspettate: economiche, politiche, sociali e ambientali. In effetti la storiografia è in generale concorde sugli effetti modernizzatori dei piani di assistenza economica americani sui sistemi produttivi industriali delle nazioni europee. In queste però l’intervento sulla produzione ha anche effetti diretti e indiretti sulla qualità e le caratteristiche del cibo, sull’ambiente e quindi sulla vita delle persone, cosa che naturalmente agli americani interessava ben poco e che gli europei e sicuramente gli italiani non erano attrezzati a ricevere criticamente. In questa situazione le classi dirigenti italiane hanno mostrato intraprendenza nell’apertura verso modelli economici più avanzati, ma scarsa capacità nel governarne le conseguenze.

Un primo effetto della modernizzazione fu la ridefinizione dei rapporti fra Stato, tecnici e ceti rurali produttivi che acquisirono un potere di contrattazione molto forte rispetto alla stabilità dei governi nazionali. Questo potere corporativo caratterizzò la modernizzazione tecnologica, la riorganizzazione dei servizi dell’agricoltura che ancora paghiamo, la sperimentazione agraria, e quindi la relazione fra potere politico e organizzazioni agricole, ma il tutto senza una solida base culturale.
L’accelerazione del progresso tecnico incise sia sulla produzione che sull’alimentazione. L’introduzione delle sementi ibride fu infatti accompagnata da tonnellate di concimi chimici, diserbanti e macchinari costosi, nuovi metodi non solo di coltivazione ma anche di allevamento, di lavorazione del mais e di assistenza ai contadini. Il ritmo di adozione delle innovazioni fu però più rapido dell’acquisizione della consapevolezza dei loro effetti sulla salute di uomini e animali. Non ci fu sufficiente attenzione alle problematiche ambientali e sanitarie che queste tecnologie sollevavano. L’obiettivo della quantità prevalse su quello della qualità e della sicurezza e il tutto fu fatto prendendo in considerazione solo il presente senza la minima idea di programmazione per il futuro anche prossimo.

La diffusione del mais ibrido non si tradusse in capacità produttiva concorrenziale con l’estero, né rafforzò la sovranità alimentare nazionale. L’innovazione viaggiò in parallelo alla liberalizzazione commerciale decisa e accettata anche come reazione all’autarchia fascista e, come conseguenza, negli anni ‘60 e ‘70 prese corpo una forma di dipendenza tecnologica dall’estero ma soprattutto dalle multinazionali dei semi, aggravando anche la crescente differenziazione fra nord e sud d’Italia.
Sul piano interno quell’innovazione fu un elemento divisivo: a livello territoriale favorì la concentrazione della produzione nella “Padania” rispetto al sud, a livello politico e culturale incentivò la contrapposizione fra la sinistra che esaltava il sistema sovietico (era il periodo in cui in URSS venivano accettate le idee di Lysenko!) e le forze governative che esaltavano invece tutto ciò che proveniva dall’America. Fu quindi una contrapposizione politica senza che ci fossero da ambedue le parti conoscenze scientifiche corrette. La modernità era comunque vista da tutti come cambiamento, però sentita da tutti era l’esigenza di maggiori controlli e protezione dei consumatori. Altri paesi europei negli anni 70 cominciarono a contestare fortemente la centralità americana e a disciplinare in modo più stringente degli USA le regole commerciali, i diritti dei consumatori, le politiche sanitarie e ambientali.

Non ci fu però mai una vera e approfondita discussione su costi e benefici e su come utilizzare nuove tecnologie per modernizzare e migliorare le colture tradizionali.
In realtà solo di nuove tecnologie si parla e non di grandi scoperte scientifiche. Le nuove tecnologie si sarebbero potute utilizzare per isolare nuovi ibridi adatti ai nostri climi, acqua, terreno ecc. se solo fra i tecnici agrari e soprattutto fra i politici che si occupavano di agricoltura, ci fosse stato qualcuno che aveva la cultura per capire la posta in gioco.
Le linee principali di questo processo modernizzatore giungono in maniera continua fino ad oggi a generare categorie interpretative, politiche, interessi economici e fedeltà transnazionali. Nella diffusione degli OGM in Europa si ritrovano gli stessi attori: lo stato nazionale, la chiesa cattolica, l’amministrazione USA, organizzazioni degli interessi coinvolti nell’operazione “mais ibrido” e le stesse logiche di base. Il dibattito che ne è sorto in Italia si muove dalla TV alla stampa, fra gli interessi e la “missione” degli scienziati. Si tratta quindi non solo dell’innovazione in se, nel suo aspetto scientifico, ma di un sistema di relazioni politiche, culturali e sociali che ne condizionano l’analisi, l’accettazione o il rifiuto.

Dagli anni ’60 agli anni ’80 la situazione italiana nella ricerca scientifica era migliorata. Molti ricercatori avevano lavorato qualche anno in laboratori prestigiosi in USA e si erano sprovincializzati e, avendo avuto l’opportunità di aprirsi a nuove problematiche e anche, imparando l’inglese, a consultare la letteratura internazionale, a comunicare con scienziati di altri paesi e ad affrontare problemi nuovi che si aprivano con le nuove tecnologie. Scienziati italiani illuminati come il genetista Adriano Buzzati-Traverso riuscirono ad aprire laboratori nuovi del CNR (es LIGB, Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica a Napoli), o nelle Università (cattedre di Biologia Molecolare o di Genetica Molecolare che prima di allora erano materie sconosciute in Italia) dove dettero la possibilità di fare ricerca a giovani capaci e indipendenti. L’Italia in quegli anni ha investito soldi nella ricerca acquistando anche attrezzature costose. La ricerca in agricoltura però è sempre restata un fanalino di coda, forse perché la dipendenza dal ministero dell’agricoltura tradizionalmente in mano a conservatori e reazionari non ha certamente avuto una influenza positiva.

L’agronomo Fenaroli, ad esempio, andò come borsista nel 1946 in USA a studiare gli ibridi di mais, prese accordi con alcune aziende private per l’invio su larga scala di sementi da provare in laboratorio e da introdurre nell’agricoltura italiana e per uno scambio di testi scientifici per la biblioteca dell’istituto di maiscultura di Bergamo e con un finanziamento UNRRA realizzò una serie di esami nei campi controllati dalla stazione di Bergamo, in Piemonte e in Veneto e in altre zone, che ebbero dei primi risultati promettenti. Fenaroli era convinto che gli ibridi di mais avrebbero risolto i problemi dell’agricoltura e dell’alimentazione italiana. In realtà però il passaggio dai campi sperimentali al campo aperto dettero risultati diversi e molto variati a seconda delle zone con differenze orografiche, nel regime di piogge ecc. Alcuni agricoltori ne furono entusiasti, mentre altri molto scontenti. Fenaroli però considerò che nel complesso i risultati erano incoraggianti e che gli agricoltori non dovevano farsi scoraggiare dagli insuccessi e da conclusioni negative troppo affrettate.

Anche negli altri paesi europei i dati riportati in una riunione alla FAO nel gennaio 1949 furono diversificati e i giudizi contraddittori e difficilmente comparabili. La Francia per esempio si indirizzò poi verso la crescita delle dimensioni aziendali mentre in Italia il governo De Gasperi si mosse verso una riforma agraria che, limitando la grande proprietà fondiaria, rafforzò i piccoli coltivatori diretti. Comunque la campagna del 1947-1948 sostenuta prima dall’UNRRA e poi dal piano Marshall iniziò il processo di trasformazione dell’agricoltura non solo italiana ma europea che non si sarebbe più fermato. Quello che vorrei dire è che le scelte furono politiche e non dettate da logiche che si basavano su ricerca e sperimentazione scientifica e che se Fenaroli e gli altri ricercatori agricoli avessero avuto più cultura, si sarebbero interessati alle potenzialità delle tecnologie utilizzate per produrre gli ibridi e non ai semi americani che andavano bene nell’Iowa, USA, con quelle caratteristiche di terreno e di clima ma non necessariamente in tutte le regioni italiane. Forse la storia dell’agricoltura italiana sarebbe andata diversamente e meglio.
Finita la guerra fredda e in una diversa situazione internazionale, si sono aperti nuovi spazi di manovra sia nazionale che europea. Ed è in questo contesto che si è sviluppata in vari paesi europei la resistenza o riconversione culturale, nel tentativo di affermare un diverso modo di intendere l’agricoltura e l’alimentazione senza perdere di vista l’obiettivo della qualità oltre che della produttività.

Dice l’autore chiudendo ottimisticamente la premessa: Chissà che questo non verrà fuori anche nell’Expo 2015, Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita, che proietterà l’Italia in un nuovo protagonismo nell’Europa Unita.
Io lo spero naturalmente ma ne dubito fortemente. L’Italia aveva un Istituto Nazionale della Nutrizione, INN, ente pubblico di ricerca che doveva studiare proprio la Nutrizione e cioè l’impatto fra i nutrienti introdotti con gli alimenti e l’organismo e che aveva quindi una specificità unica in quanto non studiava solo l’alimento in se ma il suo destino e il destino dei nutrienti e non nutrienti che lo compongono quando vengono a contatto con l’organismo animale che lo consuma. Nato come centro del CNR e poi diventato ente autonomo (INN, Istituto Nazionale della Nutrizione) tutelato dal Ministero dell’Agricoltura, poi diventato INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione), invece di essere migliorato in vista dell’Expo 2015, è stato chiuso dal Ministero dell’Agricoltura come ente autonomo e ridotto ad un piccolo centro accorpato al CRA, (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura). Io credo che in queste operazioni ci sia una buona dose di cialtroneria e un’altra buona dose di interessi personali di politici e anche di scientifici nelle industrie alimentari. Penso che in tutto il mondo le industrie cercano di comprare gli scienziati, tuttavia non in tutto il mondo agli scienziati seri e onesti non venga dato nulla, né ascolto né rispetto ed è per questo, credo, che anche gli scienziati seri alla fine non esprimano neanche la loro opinione e vadano all’estero dove sono senz’altro più rispettati, trovano soldi per fare ricerca ed hanno non solo il rispetto della gente ma anche stipendi decenti.

Ma soprattutto, come si può sperare che venga qualcosa di positivo dall’Expo 2015 se fra gli sponsor ci sono Coca-Cola e McDonald’s? O cosa si può sperare se qualche anno fa le dosi giornaliere raccomandate dei principi nutritivi e la composizione ideale della dieta ecc. sono state stampate sotto le tovagliette di carta dei ristoranti McDonald’s che per farlo ha dato soldi all’Istituto Nazionale della Nutrizione? Alle proteste di alcuni ricercatori dell’Istituto, presidente e direttore che avevano portato avanti l’operazione, hanno risposto sostenendo che era stata una ottima idea perché così migliaia di ragazzi avrebbero imparato come alimentarsi in maniera corretta!! Faccio notare che non ci fu alcuna riunione con i ricercatori per decidere una cosa così delicata e che lo venimmo a sapere per caso e per via indiretta!!!

Nel libro Bernardi descrive molto chiaramente quello che è successo nell’agricoltura italiana dal dopoguerra a oggi, quali sono state le ragioni e quale il ruolo avuto dalla politica locale, europea e mondiale e dai rapporti di forza dei diversi componenti della società.
A me è sembrato molto interessante per capire l’Italia di oggi, il dibattito sugli OGM in agricoltura. Il XX secolo si è chiuso con una nuova e importante rivoluzione tecnologica negli USA: piante OGM, dal mais alla soia, si sono velocemente sostituite a quelle ibride. Colossi come la Monsanto e la Dupont, che ne assorbono altre, oltre alla svizzera Syngenta (fusione Dupont e Zeneca), controllano ormai grandi fette del mercato delle sementi, fertilizzanti e agenti chimici vari.
Il dibattito scientifico, le contrapposte strategie e la tensione politico-economica nati intorno agli OGM, si snodano lungo binari culturali, politici e tecnologici che si erano già manifestati nel ‘900 con la diffusione delle culture ibride. I meccanismi capitalistici innescati dopo le 2 guerre continuano a sopravvivere. Le multinazionali affermatesi nel contesto mondiale con i semi ibridi e con i doni alle popolazioni in difficoltà con le abituali tattiche di penetrazione dei mercati, la difesa dei brevetti (misure legislative USA sviluppate negli anni ‘70) fino ad arrivare agli accordi GATT e al provvedimento del 1992 che hanno esteso il diritto di proprietà intellettuale alla invenzione della materia vivente (alla pianta) secondo il modello di brevetto di tipo industriale.

Nei cambiamenti mondiali che avvenivano in quegli anni, con la crisi del comunismo e l’emergere di nuovi paesi importatori ed esportatori di cereali (Cina, India, Brasile, Sudafrica, Russia) cambiano le relazioni economiche internazionali. L’Europa e la sua agricoltura eccedentaria limitano la centralità americana che entra in competizione con le economie dei paesi emergenti.
Gli OGM si diffondono in alcuni paesi dalla Cina, all’India al Brasile mentre l’Europa assume posizioni altalenanti ma soprattutto non riesce mai a fare una discussione seria su costi e benefici sapendo chiaramente di cosa si sta parlando.
Un esempio: il mais della Monsanto MON810 autorizzato nel 1998 è resistente agli attacchi della piralide grazie all’inserimento nel suo DNA di un gene di un batterio del suolo (il Bacillus thurigensis, che produce una tossina che uccide la piralide). 5 paesi hanno iniziato a coltivarlo e 7 paesi ne hanno vietata la coltivazione (Austria, Ungheria, Grecia, Francia, Lussemburgo, Germania e Italia) però ne hanno autorizzato l’importazione per uso zootecnico e industriale. Al 2012 solo 5 paesi coltivavano mais OGM: Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania ma in poche aree poco estese. Insomma in Europa c’è una gran contraddizione fra produzione e commercio.

Un fronte europeo che rifiuta l’offerta tecnologica americana è una novità. Cade la leadership tecnologica USA che rappresenta la modernità e mentre il mais ibrido dal punto di vista tecnologico e alimentare aveva compattato sia economicamente che politicamente il legame fra Europa e Usa, gli OGM hanno effetti fortemente divisivi.
L’identità dell’Europa passa attraverso un inedito processo di differenziazione dall’America, e, secondo l’autore, attraverso un proprio percorso di modernizzazione produttivistica secondo standard ecologici, sanitari e alimentari più elevati di quelli statunitensi che di quelli osservati nei decenni precedenti delineando una nuova attenzione verso la salute umana, degli animali e della terra da parte degli stati nazionali. Rispetto a tali principi si orienta e si diversifica la richiesta dei consumatori.
Il conflitto alimentare provoca forti tensioni diplomatiche e l’ambasciatore USA in Francia arriva a fare una lista nera di paesi contrari agli OGM proponendo rappresaglie, tanto che il presidente Sarkozy ipotizza un piano Marshall per l’ambiente senza OGM.

Il segretario di stato Colin Powell fa addirittura pressioni su Papa Giovanni Paolo II perché la Santa Sede faccia pressione sui governi del III mondo a favore degli OGM. I problemi della Chiesa non sono né di natura morale per la manipolazione genetica degli organismi viventi né perché contro gli interessi monopolistici delle multinazionali, ma di natura economico-sociale per le ricadute di quelle innovazioni sulle società riceventi.
La Chiesa cattolica non si esprime né pro né contro.
Differentemente dall’autore, secondo me la Chiesa è dilaniata fra essere pro USA come nei decenni precedenti, ma anche molto preoccupata per l’utilizzo delle biotecnologie in medicina dove da una lato la gente è tutta pro e anche la Chiesa non ha nulla contro per quanto riguarda la cura delle malattie genetiche, ma dall’altra è preoccupata per il possibile utilizzo delle biotecnologie nelle manipolazioni delle cellule riproduttive ecc. e nella Santa Sede si hanno 2 correnti diverse pro e contro gli OGM.

Nel mondo della politica un approccio problematico ma aperto alla discussione è stato assunto da Carmine Nardone, relatore del PDS nella commissione di indagine sulle biotecnologie che nel documento finale aveva trovato il voto trasversale di tutti i partiti. Tuttavia all’inizio del nuovo millennio anche il maggiore partito della sinistra asseconda una politica di chiusura al cambiamento e allo stop del decreto Amato del 4 agosto del 2000 che sospende la commercializzazione di 4 tipi di mais transgenico. Prosegue il blocco della ricerca con il nuovo ministro dell’Agricoltura Pecoraro Scanio e i margini di dialogo fra ricerca e politica si ristringono fino ad annullarsi e così rimane tutto con Alemanno, Zaia e De Girolamo. Viene quindi sospesa sia la ricerca che la sperimentazione. I governi di centro sinistra (Amato e Prodi) e il PDS danno poche speranze agli USA mentre il governo di Berlusconi con Forza Italia per apparire moderni accusano la sinistra di essere conservatrice e passatista e richiamano la logica binaria e bipolare degli anni della guerra fredda. Il governo Berlusconi (2001-2005), sembra aprire agli OGM, ma le rassicurazioni del premier all’amministrazione Bush, condiziona il ministro dell’agricoltura Alemanno che non ne voleva sapere, ma non modifica la resistenza italiana. Nel 2003 il presidente della Regione Piemonte Ghigo, di Forza Italia, distrugge 380 ettari di mais OGM e dichiara di farlo per la tutela dell’agricoltura del Piemonte che ha una produzione agricola naturale e biologica. E nel 2008 Radio Vaticana rende pubblica la decisione del IV governo Berlusconi che apre agli OGM ma poi nel piano cerealicolo nazionale concordato fra stato e regioni non c’è nessun riferimento agli OGM, mentre si punta al rilancio degli investimenti nel miglioramento genetico e della qualità culturale per sostenere il reddito degli agricoltori, minacciato sia dalla volatilità dei prezzi che dalle sempre più stringenti norme sanitarie europee. Della querelle internazionale sugli OGM coincidente con il fallimento della Federconsorzi, ne risente pure l’importazione degli ibridi di mais dagli USA che crolla dal 78% nel 1991 al 40% nel 2000 allo 0.6% nel 2008. Anche un ampio fronte di associazioni ambientaliste (Greenpeace, Italia nostra, WWF, Legambiente, Slowfood, Fondazione per i diritti genetici) sostiene con affermazioni quasi sempre assurde, una agricoltura poco inquinante, biologica, su piccola scala che possa trovare un suo spazio specializzato nel mercato globale. Durante i 7 anni della presidenza Ciampi si costituisce il fronte “no OGM” nel quale confluiscono tradizioni rivendicative e di lotta politica diverse con l’idea economica di fondo fatta propria da industrie alimentari come Barilla e Peroni, che la specializzazione produttiva ispirata alla territorialità e alla qualità in un contesto di globalizzazione accelerata, sia l’unico modo per la agricoltura italiana di essere competitiva sul mercato interno e internazionale, mentre sul piano della salute e dell’ambiente si afferma l’idea che gli OGM minacciano la biodiversità e la sicurezza alimentare.
Il leghismo politico si intreccia con la difesa delle radici culturali di territori. Con la crisi della DC e il problema europeo delle quote latte, i coltivatori di mais e gli allevatori della Padania trovano il loro referente politico nella Lega Nord.

Nel 2014 le regioni che si dichiarano “libere da OGM” sono 16, e nel favorire l’uso di sementi locali si scontrano con il governo nazionale e con le direttive europee. Per Gian Tommaso Scarascia Mugnozza agronomo e genetista, le culture ibride sono la tradizione e le nuove tecnologie sono un gran passo avanti nella ricerca in quanto l’intervento ricombinante sul DNA consente di controllare molto più che nel passato i caratteri negativi e positivi delle piante sia dal lato produttivo che degli effetti sull’ambiente. Anche il fisico Tullio Regge e Umberto Veronesi sono convinti che gli OGM possano essere gli strumenti per una nuova rivoluzione tecnologica che permetterà di nutrire la popolazione del pianeta in espansione. Fra i tecnici che più si sono impegnati a dimostrare ciò c’è il chimico Dario Bressanini e il biotecnologo vegetale Francesco Sala e il genetista delle piante Salamini che è poi andato a dirigere un laboratorio in Germania.
Negli ultimi anni la situazione va velocemente cambiando per i problemi ecologici dell’agricoltura intensiva monoculturale. La moria di api nel 2008, la diffusione delle intolleranze alimentari, l’innalzamento dei prezzi internazionali e delle importazioni nel 2001 e i pessimi raccolti nel 2012-2013. L’Europa continua a tenere liberalizzate le importazioni e il mais coltivato intensivamente mostra un incremento di problemi fitosanitari: la diffusione di parassiti resistenti a pesticidi e insetticidi che richiedono interventi chimici sempre più potenti e potenzialmente dannosi per la fertilità del terreno.
Di fronte all’aggravarsi della situazione produttivistica, al rallentamento delle rese rispetto ad altri paesi come per es la Spagna, gli OGM acquisiscono forza negli ambienti giornalistici, tecnici, economici, agricoli e industriali.

Illuminata è stata la posizione di De Castro già ministro dell’agricoltura e presidente della commissione agricoltura europea che si è espresso per un controllo pubblico sulle multinazionali una volta accertata la sicurezza alimentare nel rispetto del principio di precauzione. Secondo De Castro è la ricerca Pubblica che con i suoi risultati deve spezzare l’oligopolio dei brevetti sementieri e la Confagricoltura sembra essere in sintonia con queste posizioni.
In Friuli-Venezia Giulia un agricoltore pianta illegalmente il mais OGM Monsanto MON81 riaccendendo lo scontro perché secondo la Coldiretti era stato provocato un disastro ambientale.
Nel dibattito vengono contrapposti ai diritti del consumatore la libertà del produttore creando una gran confusione nell’opinione pubblica. Il mondo agroalimentare è in subbuglio così come quello religioso, politico e scientifico. Le decisioni verranno assunte in Europa e influenzeranno tutte le politiche di sviluppo dei paesi poveri attraverso la cooperazione.

Nel 2013 il Pontificio consiglio del Vaticano si esprime contro l’oligopolio economico-industriale in un mercato sregolato. Non a caso gli investimenti privati sono concentrati su produzione di soia, cotone e mais OGM che non servono per la alimentazione umana ma per il tessile e per biocarburanti che sono anche molto più redditizi.
Di nuovo a febbraio 2014, 600 aziende del mantovano che fanno riferimento a Confagricoltura, chiedono alla regione Lombardia di poter coltivare il mais MON810, non come contrapposizione ideologica ma in coesistenza con culture biologiche e anche a culture convenzionali. Chiedendo una discussione laica senza ideologie. Chiedono che sia fatta la ricerca nelle università e non dalla Monsanto o dalle altre multinazionali e che siano date risposte precise. Infatti sostengono che il 90% della soia mangiata dai nostri animali è geneticamente modificata come il 40% del mais e allora come si può parlare di libertà di impresa se si può solo comprare il mais OGM ma non si può coltivarlo? Anche l’Accademia dei Georgofili si fa portatrice delle stesse istanze all’insegna dell’apertura alla ricerca internazionale e contro ogni azione “oscurantista”.
Un mese più tardi rispondono i contadini biodinamici e la Task Force per un’Italia libera da OGM formata da 39 associazioni, che, per un cibo di qualità, invocano lo stop delle coltivazioni transgeniche e anche quello dei sussidi alle coltivazioni inquinanti.
Insomma il confronto è destinato a durare ancora a lungo soprattutto dopo la riforma varata dal PAC (Politica Agricola Comunitaria) per il periodo 2014-2020 e la nuova regolamentazione del commercio fra Europa e USA in discussione dal 2014.

Secondo l’autore grave è la decisione del Consiglio Ambientale della UE che ogni stato è libero di coltivare o no gli OGM senza aver trovato una soluzione unitaria.
Si chiede Bernardi: alla luce del percorso storico della diffusione delle culture ibride nel nostro paese quali potranno essere le traiettorie della diffusione degli OGM in Europa?
È difficile prevederlo ma in un mercato liberalizzato e in assenza di organismi regolatori e di attrezzature scientifiche inquadrate in un programma nazionale di ricerca, gli OGM rafforzeranno probabilmente la dipendenza tecnologica dell’Italia dall’estero, con un’agricoltura non in grado di competere con le produzioni di oltre oceano. Inoltre si avrà l’abbandono delle terre marginali, non sostenute da piogge regolari e dall’irrigazione, acuendo le differenze infra-regionali e fra nord e sud. Si favorirà la concentrazione degli investimenti e la meccanizzazione aggravando la disoccupazione degli agricoltori, infine si limiterà la biodiversità provocando reazioni ambientali negative come già avvenuto in USA.
Dice giustamente Bernardi che tutto questo potrebbe essere evitato con una buona politica di governo dell’innovazione tecnologica, di ricerca scientifica e di regolazione dei rapporti commerciali e si domanda se non possa essere una buona strategia per l’agricoltura italiana pur nel rifiuto di chiusure autarchiche, di stare OGM free con le proprie specificità nel mercato globale.

Io da ricercatrice invece insisto che le manipolazioni biotecnologiche sono semplicemente una straordinaria, innovativa e rivoluzionaria tecnica, ma solo una tecnica che come tale va vista e utilizzata. Era forse meglio ottenere ibridi con pesanti bombardamenti con radiazioni senza sapere se e cosa e di utile ne sarebbe venuto fuori e che altro era successo oltre alla modifica che poteva essere utile all’agricoltura? Nelle modificazioni geniche per via biotecnologica è possibile decidere cosa si vuole e controllare i risultati. Certo la ricerca scientifica è fondamentale, cosa che nessun governo di questo paese sembra capire. Nel programma elettorale del primo governo Prodi era molto enfatizzato il fatto che se vinceva avrebbe aumentato i finanziamenti per la ricerca pubblica: la prima cosa che ha fatto il governo appena eletto è stata quella di tagliare i fondi per la ricerca pubblica.

In conclusione il libro: Il mais miracoloso di Emanuele Bernardi è molto interessante e, direi, appassionante. Consiglio vivamente di leggerlo a tutte le persone che, interessate ai destini di questo paese, abbiano voglia di imparare da una storia particolare avvenuta lungo circa 70 anni, i meccanismi, le dinamiche, gli equilibri e soprattutto gli interessi che portano poi alle scelte che nel bene e nel male vengono poi subite, anzi pagate dai cittadini che devono stare quindi sempre molto all’erta e soprattutto non devono mai accettare il dibattito in termini manichei (sei pro o sei contro) ma devono spingere i loro rappresentanti a scelte laiche e motivate e a prendere decisioni politiche dopo aver sentito e discusso con i tecnici.


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